S. Cecilia, vergine e martire e S. Valeriano

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DAGLI SCRITTI DI MARIA VALTORTA

  
Una bella e lunga visione che non ha nulla a che fare con la Santa penitente che io ho sempre amata tanto. La scrivo aggiungendo fogli a questo quaderno perché sono sola e prendo quanto ho sotto mano.
Vedo le catacombe. Per quanto io non sia maistata nelle catacombe, capisco che sono esse. Quali non so. Vedo oscuri meandri di stretti corridoi scavati nella terra, bassi e umidi, fatti tutti a giravolte come un labirinto. Si cammina diritti e sembra di poter continuare, al massimo di poter svoltare in un altro corridoio, invece ci si trova di fronte una parete terrosa e occorre svoltare, tornare indietro sino a ritrovare un altro corridoio che vada oltre. […] 
 
La Messa ha termine. I cristiani si affollano intorno al Pontefice per esserne benedetti anche singolarmente e per accomiatarsi dalla vergine a cui si è rivolto il Pontefice. Questi saluti avvengono però in una sala vicina, una anticamera, direi, della chiesa vera e propria. E avvengono quando la vergine, dopo una preghiera più lunga di tutte degli altri presenti, si alza dal suo posto, si prostra ai piedi dell’altare e ne bacia il bordo. Pare proprio un cervo che non sappia staccarsi dalla sua fonte d’acqua pura.
Sento che la chiamano: “Cecilia, Cecilia” e la vedo, finalmente, in viso, perché ora è ritta presso il Pontefice e si è un poco sollevato il velo. È bellissima e giovanissima. Alta, formosa con grazia, molto signorile nel tratto, con una bella voce e un sorriso e uno sguardo d’angelo. Dei cristiani la salutano con lacrime, altri con sorrisi. Alcuni le dicono come mai si è potuta decidere a nozze terrene, altri se non teme l’ira del patrizio quando la scoprirà cristiana.
Una vergine si rammarica che ella rinunci alla verginità. Risponde Cecilia a lei per rispondere a tutti: “Ti sbagli, Balbina. Io non rinuncio a nessuna verginità. A Dio ho sacrato il mio corpo come il mio cuore e a Lui resto fedele. Amo Dio più dei parenti. Ma li amo ancora tanto da non volerli portare a morte prima che Dio li chiami. Amo Gesù, Sposo eterno, più d’ogni uomo. Ma amo gli uomini tanto da ricorrere a questo mezzo per non perdere l’anima di Valeriano. Egli mi ama, ed io castamente lo amo, perfettamente lo amo, tanto da volerlo avere meco nella Luce e nella Verità. Non temo le sue ire. Spero nel Signore per vincere. Spero in Gesù per cristianizzare lo sposo terreno. Ma se non vincerò  in  questo,  e  martirio  mi  verrà dato, vincerò più presto la mia corona. Ma no!… Io vedo tre corone scendere dal Cielo: due uguali e una fatta di tre ordini di gemme. Le due uguali sono tutte rosse di rubini. La terza è di due fasce di rubini intorno e un grande cordone di perle purissime. Esse ci attendono. Non temete per me. La potenza del Signore mi difenderà. In questa chiesa ci troveremo presto uniti per salutare dei nuovi fratelli. Addio. In Dio”.
Escono dalle catacombe. Si avvolgono tutti in mantelli scuri e sgattaiolano per le vie ancora semioscure perché l’alba è appena appena al suo inizio.
Seguo Cecilia che va insieme a un diacono e a delle vergini. Alla porta di un vasto fabbricato si lasciano. Cecilia entra con due vergini sole. Forse due ancelle. Il portinaio però deve essere cristiano perché saluta così: “Pace a te!”.
Cecilia si ritira nelle sue stanze e insieme alle due prega e poi si fa preparare per le nozze. La pettinano molto bene. Le infilano una finissima veste di lana candidissima, ornata di una greca in ricamo bianco su bianco. Sembra ricamata in argento e perle. Le mettono monili alle orecchie, alle dita, al collo, ai polsi.
La casa si anima. Entrano matrone e altre ancelle. Un via vai festoso e continuo.
Poi assisto a quello che credo sia lo sposalizio pagano. Ossia l’arrivo dello sposo fra musiche e invitati e delle cerimonie di saluti e aspersioni e simili storie, e poi la partenza in lettiga verso la casa dello sposo tutta parata a festa. Noto che Cecilia passa sotto archi di bende di lana bianca e di rami che mi paiono mirto e si ferma davanti al larario, credo, dove vi sono nuove cerimonie di aspersioni e di formule. Vedo a odo i due darsi la mano e dire la frase rituale: “Dove tu, Caio, io Caia”.
Vi è tanta di quella gente e su per giù tutta in vesti uguali: toghe, toghe e toghe, che non capisco quale sia il sacerdote del rito e se c’è. Mi pare di avere il capogiro.
Poi Cecilia, tenuta per mano dallo sposo, fa il giro dell’atrio (non so se dico bene), insomma della sala a nicchie e colonne dove è il larario, e saluta le statue degli antenati di Valeriano, credo. E poscia passa sotto nuovi archi di mirto ed entra nella vera casa. Sulla soglia le offrono doni e, fra l’altro, una rocca e un fuso. Glie la offre una vecchia matrona. Non so chi sia.
La festa si inizia col solito banchetto romano e dura fra canti e danze. La sala è ricchissima come tutta la casa. Vi è un cortile ‑ credo si chiami impluvio, ma non ricordo bene i nomi della edilizia romana né so se li applico giusti ‑ che è un gioiello di fontane, statue e aiuole. Il triclinio è fra questo e il giardino folto e fiorito che è oltre la casa. Fra i cespugli, statue di marmo e fontane bellissime.
Mi sembra passi molto tempo perché la sera scende. Si vede che per i romani non c’erano le tessere 12. Il banchetto non finisce mai. È vero che vi sono soste di canti e danze. Ma insomma… (Segue nel riquadro qui a fianco)
 
S. Cecilia, vergine e martire e S. Valerianoultima modifica: 2011-11-26T06:39:25+01:00da dio_amore
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