XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)

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PRIMA LETTURA (Ab 1,2-3;2,2-4)
Il giusto vivrà per la sua fede.
Dal libro del profeta Abacuc

Fino a quando, Signore, implorerò aiuto
e non ascolti,
a te alzerò il grido: «Violenza!»
e non salvi?
Perché mi fai vedere l’iniquità
e resti spettatore dell’oppressione?
Ho davanti a me rapina e violenza
e ci sono liti e si muovono contese.
Il Signore rispose e mi disse:
«Scrivi la visione
e incidila bene sulle tavolette,
perché la si legga speditamente.
È una visione che attesta un termine,
parla di una scadenza e non mentisce;
se indugia, attendila,
perché certo verrà e non tarderà.
Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto,
mentre il giusto vivrà per la sua fede».

 

SECONDA LETTURA (2Tm 1,6-8.13-14)
Non vergognarti di dare testimonianza al Signore nostro.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo

Figlio mio, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza.
Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo.
Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù. Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato.

 

VANGELO (Lc 17,5-10)
Se aveste fede!
+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

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Carissimi,
il Vangelo di Luca di questa settimana fa parte di due distinti episodi che ritroveremo nei testi valtortiani con la solita chiarezza di sempre.
Quello che si riferisce alla fede e’ poi particolarmente bello perche’ ci riporta un miracolo fatto da Giuseppe d’Arimatea proprio a motivo della Sua fede sicura in Gesu’ Verbo incarnato. 
Buona lettura e meditazione.

Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato. [408.1-7], ed. CEV.
 
1Anche qui ferve l’opera dei mietitori. Anzi, è meglio detto, è stata fervida l’opera dei mietitori. Ormai le falci sono inutili perché non c’è più ritta una spiga, in questi campi ancor più prossimi alla sponda mediterranea di quelli di Nicodemo. Per­ché Gesù non è andato ad Arimatea, ma nei poderi che Giusep­pe ha nel piano, verso il mare e che, avanti la mietitura, dovevano essere un altro piccolo mare di spighe, tanto sono estesi.
Una casa bassa, larga, bianca, è là, al centro dei campi spo­gli. Una casa di campagna, ma ben tenuta. Le sue quattro aie stanno riempiendosi di covoni e covoni, messi a fasci come fanno i soldati con le salmerie durante le soste al campo. Carri e carri portano quel tesoro dai campi alle aie, e uomini e uomi­ni scaricano e ammucchiano, e Giuseppe gira da un’aia all’al­tra e sorveglia che tutto sia fatto, e fatto bene.
Un contadino, dall’alto del mucchio affastellato su un car­ro, annuncia: «Abbiamo finito, padrone. Tutto il grano è sulle tue aie. Questo è l’ultimo carro dell’ultimo podere».
«Sta bene. Scarica e poi stacca i bovi e conducili alle vasche e alle stalle. Hanno ben lavorato e meritano riposo. E anche voi tutti avete ben lavorato e meritate riposo. Ma l’ultima fatica sarà lieve, perché ai cuori buoni è sollievo la gioia altrui. 2Ora faremo venire i figli di Dio e daremo loro il dono del Padre. Abramo, va’ a chiamarli», dice poi volgendosi ad un patriarca­le contadino, che forse è il primo dei servi contadini di questa tenuta di Giuseppe. Lo penso perché vedo che il rispetto degli altri servi è molto palese per questo vegliardo, che non lavora ma sorveglia e consiglia aiutando il padrone.
E il vecchio va… Lo vedo dirigersi ad una vasta e molto bassa costruzione, più simile ad una tettoia che ad una casa, munita di due portoni giganteschi che toccano la grondaia. Penso sia una specie di magazzeno dove stiano ricoverati i car­ri e gli altri attrezzi agricoli. Entra là dentro e ne esce seguito da una eterogenea e misera folla di tutte le età… e di tutte le miserie… Vi sono esseri macilenti ma senza sventure fisiche e vi sono storpi, ciechi, monchi, malati d’occhi… Molte vedove coi molti orfanelli intorno, o anche delle mogli di qualche ma­lato, tristi, dimesse, scarnite dalle veglie e dai sacrifici per cu­rare il malato.

 

Vengono avanti con quell’aspetto particolare dei poveri quando vanno ad un luogo in cui saranno beneficati: timidezza di sguardi, ritrosia del povero onesto, eppure un sorriso che af­fiora sopra la tristezza che giorni di dolore hanno impresso sui volti smunti, eppure una scintilla minima di trionfo, quasi una risposta all’accanirsi del destino in giorni tristi, continui, un dirgli: «Oggi, un giorno c’è anche per noi di festa, oggi è festa, è allegria, è sollievo per noi!».

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I     piccoli sgranano gli occhi davanti ai mucchi dei covoni, più alti della casa, e dicono accennandoli alle mamme: «Per noi? Oh! belli!». I vecchi mormorano: «Il Benedetto benedica il pietoso!». I mendichi, storpi, o ciechi, o monchi, o malati d’oc­chi: «Avremo pane, infine, anche noi, senza sempre dovere stendere la mano!». E i malati ai parenti: «Almeno potremo curarci sapendo che voi non soffrite per noi. Le medicine ci fa­ranno bene, ora». E i parenti ai malati: «Vedete? Ora non dire­te più che noi digiuniamo per lasciare a voi il boccone. Ora state dunque lieti!…». E le vedove agli orfanelli: «Creature mie, occorrerà benedire molto il Padre dei Cieli che vi fa da padre, e il buon Giuseppe che è il suo amministratore. Ora non vi sentiremo più piangere per fame, o figli che non avete che le vostre mamme a darvi aiuto… le povere mamme che di ricco non hanno che il cuore…». Un coro e uno spettacolo che allie­tano ma portano anche lacrime agli occhi…
3E Giuseppe, avuti davanti questi infelici, si dà a scorrere le file, a chiamare uno per uno, domandando quanti sono in fa­miglia, da quanto tempo vedove, o da quanto malati, e così via… e prende appunto. E per ogni caso ordina ai servi conta­dini: «Dài dieci. Dài trenta».
«Dài sessanta», dice dopo avere ascoltato un vegliardo se­micieco che gli viene davanti con diciassette nipoti, tutti sotto i dodici anni, figli di due suoi figli, morti uno nella mietitura dell’anno prima, l’altra di parto… e dice il vecchio: «lo sposo s’è consolato e ad altre nozze è andato dopo un anno, riman­dandomi i cinque figli, dicendo che ci avrebbe pensato. Mai un denaro, invece!… Ora mi è morta anche la donna e sono solo… con questi…».
«Dài sessanta al vecchio padre. E tu, padre, resta, ché dopo ti darò vesti per i piccoli».
Il    servo fa notare che, se si va a sessanta covoni per volta, non basterà il grano per tutti…
«E dove è la tua fede? Per me accumulo forse i covoni e li spartisco? No. Per i figli più cari al Signore. Il Signore stesso provvederà a che basti per tutti», risponde Giuseppe al servo.
«Sì, padrone. Ma il numero è numero…».
«Ma la fede è fede. Ed io, per mostrarti che la fede può tutto, ordino che sia raddoppiata la misura già data ai primi. Chi ebbe dieci abbia altri dieci, e chi venti altri venti, e centoventi siano dati al vecchio. Fa’! Fate!».
I servi si stringono nelle spalle ed eseguiscono. E la distribu­zione continua fra lo stupore gioioso dei beneficati, che si vedo­no dare una misura al disopra di tutte le loro più folli speranze. E Giuseppe ne sorride, carezzando i piccoli che si affannano ad aiutare le mamme, o aiuta gli storpi che fanno il loro piccolo mucchio, aiuta i vecchi troppo cadenti per farlo, o le donne troppo macilente, e fa mettere da un lato due malati per benefi­carli con altri aiuti, come ha fatto col vecchio dai diciassette ni­poti. I cumuli, alti più della casa, sono ora molto bassi, quasi a terra. Ma tutti hanno avuto il loro e in misura abbondante.
Giuseppe domanda: «Quanti covoni restano ancora?».
«Centododici, padrone», dicono i servi dopo avere contato i residui.
«Bene. Ne prenderete…». Giuseppe scorre la lista dei nomi che ha segnato e poi dice: «Ne prenderete cinquanta. Li ripor­rete per semente, perché è seme santo. E il resto sia dato, uno per uno, ad ogni capo di famiglia qui presente. Sono esatta­mente sessantadue capi».
I servi ubbidiscono. Portano sotto un portico i cinquanta covoni e danno il resto. Ora le aie non hanno più i grossi muc­chi d’oro. Ma per terra sono sessantadue mucchietti di diversa misura, e i loro proprietari si affannano a legarli e a caricarli su primordiali carriole, oppure su stenti asinelli che sono an­dati a slegare da una staccionata sul dietro della casa
4Il vecchio Abramo, che ha confabulato coi principali fra i servi contadini, si avvicina con questi al padrone che li interro­ga: «Ebbene? Avete visto? Ce ne è stato per tutti! E con avan­zo!».
«Ma padrone! Qui c’è un mistero! I nostri campi non posso­no aver dato il numero dei covoni che tu hai distribuito. Io so­no nato qui e ho settantotto anni. Sego da sessantasei anni. E so. Mio figlio aveva ragione. Senza un mistero non avremmo potuto dare tanto!…».
«Ma è realtà che abbiamo dato, Abramo. Tu eri al mio fianco. I covoni sono stati dati dai servi. Non c’è sortilegio. Non è irrealtà. I covoni si possono ancora contare. Sono ancora là, sebbene divisi in tante parti».
«Sì, padrone. Ma… Non è possibile che i campi ne abbiano dati tanti!».
«E la fede, figli miei? E la fede? Dove mettete la fede? Pote­va smentire il Signore il suo servo che prometteva in suo Nome e per santo fine?».
«Allora tu hai fatto miracolo?!», dicono i servi, pronti già all’osanna.
«Non sono uomo da miracoli io. Sono un povero uomo. Il Signore lo ha fatto. Mi ha letto nel cuore e vi ha visto due desi­deri: il primo era quello di portarvi alla mia stessa fede. Il se­condo era quello di dare tanto, tanto, tanto a questi miei fra­telli infelici. Dio ha annuito ai miei desideri… ed ha fatto. Che Egli ne sia benedetto!», dice Giuseppe con un inchino riveren­te come fosse davanti ad un altare.
«E il suo servo con Lui», dice Gesù che è rimasto fino ad al­lora celato dietro lo spigolo di una casetta cinta da una siepe, non so se forno o frantoio, e che adesso appare apertamente sull’aia dove è Giuseppe.
«Maestro mio e mio Signore!!», esclama Giuseppe cadendo in ginocchio per venerare Gesù.
«La pace a te. Sono venuto a benedirti in nome del Padre. Per premiare la tua carità e la tua fede. 5Sono tuo ospite per questa sera. Mi vuoi?».
«Oh! Maestro! Lo chiedi? Soltanto… Soltanto qui non potrò farti onore… Sono fra servi contadini… nella mia casa di cam­pagna… Non ho stoviglie fini, non ho maestri di mensa né ser­vi capaci… Non ho cibi raffinati… Non ho vini scelti… Non ho amici… Sarà una ben povera ospitalità… Ma Tu compatirai… Perché, Signore, non mi hai fatto avvisato? Avrei provveduto… Ma ier l’altro Erma, coi suoi, fu qui… Anzi me ne sono servito per fare avvisati questi ai quali volevo dare, rendere, ciò che è di Dio… Ma non mi ha detto nulla, Erma! Avessi saputo!… Permetti, Maestro, che dia ordini, che cerchi di rimediare… Perché sorridi così?», chiede infine Giuseppe che è tutto sossopra per la gioia improvvisa e per la situazione che egli giudi­ca… disastrosa.
«Sorrido per le tue inutili pene. Ma, o Giuseppe, che cerchi? Ciò che hai?».
«Che ho? Non ho nulla».
«Oh! come sei uomo ora! Perché non sei più lo spirituale Giuseppe di poco fa, quando parlavi da sapiente? Quando pro­mettevi, sicuro, per la fede e per dare la fede?».
«Oh! hai sentito?».
«Sentito e visto, Giuseppe. Quella siepe di lauri è molto uti­le a vedere che ciò che ho seminato non è morto in te. E per questo ti dico che ti dai delle inutili pene. Non hai maestri di tavola né servi capaci? Ma dove si esercita carità là è Dio, e do­ve è Dio là sono i suoi angeli. E che maestri di casa vuoi avere più capaci di quelli? Non hai cibi né vini prelibati? E quale ci­bo vuoi darmi e quale bevanda più prelibata dell’amore che hai avuto per costoro e che hai per Me? Non hai amici per far­mi onore? E questi? Quali amici più diletti dei poveri e degli infelici per il Maestro che ha nome Gesù? Suvvia, Giuseppe! Neppure se Erode si convertisse e mi aprisse le sue sale per ospitarmi e darmi onore, in una reggia purificata, e con lui fos­sero i capi di tutte le caste ad onorarmi, Io avrei una corte più scelta di questa alla quale voglio Io pure dire una parola e dare un dono. Permetti?».
«Oh! Maestro! Ma tutto ciò che Tu vuoi io voglio! Ordina».
«Di’ loro che si radunino, e così si radunino i servi. Per noi ci sarà sempre un pane… Meglio è che ora ascoltino la mia pa­rola anziché correre qua e là, indaffarati in povere cure».
La gente si accalca sollecita, stupita…
6Gesù parla: «Qui avete già conosciuto che la fede può moltiplicare il grano quando questo desiderio viene da desiderio d’amore. Ma non limitate la vostra fede alle necessità materia­li. Dio creò il primo chicco di frumento e d’allora spighisce il frumento per il pane degli uomini. Ma Dio creò anche il Para­diso ed esso attende i suoi cittadini. È stato creato per coloro che vivono nella Legge e restano fedeli nonostante le prove do­lorose della vita. Abbiate fede e riuscirete a conservarvi santi con l’aiuto del Signore, così come Giuseppe riuscì ad assegnare il grano in misura doppia per farvi felici due volte e conferma­re nella fede i suoi servi. In verità, in verità vi dico che se l’uo­mo avesse fede nel Signore, e per un giusto motivo, neppur le montagne, confitte con le loro viscere di roccia nel suolo, po­trebbero resistere, e al comando di chi ha fede nel Signore si sposterebbero. Avete voi fede in Dio?», chiede rivolgendosi a tutti.
«Sì, o Signore!».
«Chi è Dio per voi?».
«Il Padre Ss., come i discepoli del Cristo insegnano».
«E il Cristo chi è per voi?».
«Il Salvatore. Il Maestro. Il Santo!».
«Questo solo?».
«Il Figlio di Dio. Ma non bisogna dirlo, perché i farisei ci perseguitano se lo diciamo».
«Ma voi credete che Egli lo sia?».
«Sì, o Signore».
«Orbene, crescete nella vostra fede. Anche se voi tacerete, le pietre, le piante, le stelle, il suolo, tutte le cose proclameranno che il Cristo è il vero Redentore e Re. Lo proclameranno nell’o­ra della sua assunzione, quando Egli sarà nella porpora santis­sima e col serto di Redenzione. Beati quelli che sapranno cre­dere questo fin da ora, e più ancora lo crederanno allora, e avranno fede nel Cristo e vita eterna perciò. L’avete voi questa fede incrollabile in Cristo?».
«Sì, o Signore. Insegnaci dove Egli è, e noi lo pregheremo di aumentare la nostra fede per essere beati così». E l’ultima par­te di preghiera la fanno non solo i poveri, ma anche i servi, gli apostoli e Giuseppe.
«Se avrete tanta fede quanto un granello di senapa e questa fede, perla preziosa, terrete nel cuore senza farvela rapire da nessuna cosa umana, o soprumana e malvagia, potrete tutti anche dire a quel gelso potente che ombreggia il pozzo di Giu­seppe: “Sbarbati di lì e trapiantati fra le onde del mare”».
7«Ma Cristo dove è? Noi lo attendiamo per essere guariti. I discepoli non ci hanno guariti, ma ci hanno detto: “Egli lo può”. Vorremmo guarire per lavorare, noi», dicono degli uomi­ni malati o inabili.
«E credete che Cristo lo possa?», dice Gesù facendo cenno a Giuseppe di non dire che il Cristo è Lui.
«Lo crediamo. Egli è il Figlio di Dio. Tutto può».
«Sì. Tutto può… e tutto vuole!», grida Gesù stendendo con impero il braccio destro e abbassandolo come per giurare. E ter­mina con un grido potente: «E così sia fatto, a gloria di Dio!».
E fa per volgersi verso la casa. Ma i guariti, una ventina, ur­lano, accorrono e lo serrano in un groviglio di mani stese a toc­care, a benedire, a cercare le sue mani, le sue vesti, per baciare, per carezzare. Lo isolano da Giuseppe, da tutti…
E Gesù sorride, carezza, benedice… Si libera lentamente e, ancora inseguito, scompare nella casa, mentre gli osanna sal­gono nel cielo che si fa violaceo nel primo crepuscolo.
 
Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato. [422.1-8], ed. CEV.
 
1Il greto biancheggia infatti nella notte illune ma chiarissima di migliaia di stelle, di larghe, inverosimilmente larghe stelle di cielo d’Oriente. Non è il lume intenso come quello del­la luna, ma è già una fosforescenza dolce che permette, a chi ha l’occhio assuefatto al buio, di vedere dove cammina e ciò che lo circonda. Qui, alla destra dei viandanti che risalgono verso nord costeggiando il fiume, la mite luminosità stellare mostra il limite vegetale fatto di canneti, salici e poi alberi alti e, poiché è lume molto lieve, essi sembrano fare una muraglia compatta, continua, senza interruzione, senza possibilità di penetrazione, appena rotta là dove il letto di un ruscello o di un torrente, completamente disseccati, mette una riga bianca che si addentra verso oriente e scompare alla prima curva del minuscolo affluente ora asciutto. Alla sinistra, invece, i cam­minatori discernono il luccichio delle acque che scendono ver­so il mar Morto borbottando, sospirando, frusciando, quiete e serene. E fra la linea lucente delle acque d’indaco, nella notte, e la massa nero-opaca delle erbe, arbusti e alberi, la striscia chiara del greto, dove più larga, dove più stretta, talora inter­rotta da un minuscolo stagno, residuo della passata piena, an­cora dotato di un poco d’acqua in via di riassorbimento e nel quale fanno ciuffo ancor verde le erbe che altrove sono dissec­cate nell’asciuttore del greto, certo ardente nelle ore di sole.
Gli apostoli sono costretti da questi piccoli stagni, oppure da grovigli di falaschi secchi ma pericolosi come lame al piede seminudo nei sandali, a separarsi ogni tanto per poi riunirsi in gruppo intorno al Maestro loro, che va col suo passo lungo, sempre maestoso, tacendo per lo più, con lo sguardo levato alle stelle più che curvato al suolo. Gli apostoli no, non tacciono. Parlano fra di loro, riepilogando gli avvenimenti della giorna­ta, traendone conclusioni oppure prevedendone gli svolgimenti futuri. Qualche rara parola di Gesù, sovente detta per rispon­dere a una diretta domanda oppure per correggere qualche ra­gione storta o non caritativa, punteggia il chiacchiericcio dei dodici. E il cammino procede nella notte, ritmando il silenzio notturno di un elemento nuovo su quelle rive deserte: le voci umane e lo scalpiccio dei passi. E tacciono gli usignoli fra le fronde, stupiti che suoni discordi e aspri si mescolino, turban­do, all’abituale rumore delle acque e delle brezze, soliti accom­pagnamenti ai loro a-soli virtuosi.
2Ma una domanda diretta, non concernente ciò che è stato ma ciò che deve avvenire, rompe con la violenza di una ribel­lione, oltre che col tono più acuto delle voci agitate da sdegno o da ira, la pace non solo della notte ma quella più intima dei cuori. Filippo domanda se e fra quanti giorni saranno alle loro case. Un latente bisogno di riposo, un non detto ma sottinteso desiderio di affetti famigliari è nella semplice domanda dell’apostolo già anzianotto, che è marito e padre oltre che apo­stolo, che ha degli interessi da curare…   
Gesù sente tutto questo e si volge a guardare Filippo, si fer­ma per attenderlo, essendo Filippo un poco indietro con Mat­teo e Natanaele, e avutolo vicino lo cinge con un braccio di­cendogli: «Presto, amico mio. Però chiedo alla tua bontà un al­tro piccolo sacrificio, sempre che tu non ti voglia separare prima da Me…».
«Io? Separarmi? Mai!».
«E allora… ti allontano di ancor qualche tempo da Betsai­da. Io voglio andare a Cesarea Marittima passando per la Sa­maria. Al ritorno andremo a Nazaret e resteranno con Me quel­li che sono senza famiglia in Galilea. Poi, dopo qualche tempo, vi raggiungerò a Cafarnao… E là vi evangelizzerò per farvi più ancora capaci. Ma se tu credi che la tua presenza a Betsaida sia necessaria… va’ pure, Filippo. Ci ritroveremo là…».
«No, Maestro. È più necessario stare con Te! Ma sai… È dolce la casa… e le figlie… Penso che non le avrò molto con me in futuro… e vorrei godere un poco della loro casta dolcezza. Ma se devo scegliere fra loro e Te, scelgo Te… e per più moti­vi…», termina sospirando Filippo.
«E bene fai, amico. Perché Io ti sarò tolto prima delle figlie tue…».
«Oh! Maestro!…», dice con pena l’apostolo.
«Così è, Filippo», termina Gesù baciando sulla tempia l’apostolo.
3Giuda Iscariota, che ha borbottato fra i denti da quando Gesù ha nominato Cesarea, alza la voce come se vedere il bacio dato a Filippo gli facesse perdere il controllo delle sue azioni. E dice: «Quante cose inutili! Io non so proprio che necessità ci sia di andare a Cesarea!», e lo dice con un’irruenza piena di bile; pare voglia sottintendere: «e Tu che ci vai sei uno stolto».
«Non sei tu che devi giudicare delle necessità delle cose che facciamo, ma il Maestro», gli risponde Bartolomeo.
«Sì, eh? Quasi che Lui vedesse chiare le necessità natura­li!».
«Ohe! Sei folle o sei sano? Sai di chi parli?», gli chiede Pie­tro scuotendolo per un braccio.
«Non sono folle. Sono l’unico che ho il cervello sano. E so ciò che mi dico».
«Belle cose che dici!», «Prega Dio che non te le calcoli!», «La modestia non ti è amica!», «Si direbbe che hai paura che ti si possa conoscere per quel che sei, andando a Cesarea», di­cono insieme e rispettivamente Giacomo di Zebedeo, Simone Zelote, Tommaso e Giuda d’Alfeo.
L’Iscariota si rivolta verso quest’ultimo: «Non ho nulla da temere e voi non avete nulla da conoscere. Ma io sono stanco di vedere che si passa di errore in errore e ci si rovina. Urti coi si­nedristi, dispute coi farisei. Ora ci mancano i romani…».
«Come? Ma se non sono due lune che tu eri esaltato di gioia, eri sicuro, eri, eri, eri… tutto eri perché avevi amica Claudia!», osserva ironico Bartolomeo che, essendo il più… intransigente, è quello che solo per ubbidienza al Maestro non si ribella a contatti con i romani.
Giuda resta per un momento ammutolito perché la logica della ironica domanda è evidente e, a meno di non apparire il­logici, non si può smentire ciò che si era detto prima. Ma poi si riprende: «Non è per i romani che dico questo. Voglio dire per i romani come nemici. Esse, perché in fondo non sono che quat­tro donne romane, quattro, cinque, sei al massimo, esse ci hanno promesso aiuto e lo daranno. 4Ma è perché ciò aumenterà l’astio dei nemici suoi, e Lui non lo capisce e…».
«Il loro astio è completo, Giuda. E tu lo sai come Me e an­che meglio di Me», dice calmo Gesù calcando sul «meglio».
«Io? Io? Che vuoi dire? Chi sa le cose meglio di Te?».
«Or ora hai detto che tu solo conosci le necessità e il come usare in esse…», gli ribatte Gesù.
«Ma per le cose naturali, sì. Io dico che Tu conosci le cose spirituali meglio di tutti».
«Ciò è vero. Ma appunto ti dicevo che tu conosci meglio di Me le cose, brutte se vuoi, avvilenti se vuoi, naturali, quali l’astio dei miei nemici, quali i loro propositi…».
«Io non so nulla! Nulla so io. Lo giuro sulla mia anima, su mia madre, su Jeové…».
«Basta! È detto di non giurare», intima Gesù con una severità che pare indurirgli persino i tratti del volto in una perfe­zione di statua.
«Ebbene non giurerò. Ma mi sarà lecito dire, perché non so­no uno schiavo, che non è necessario, che non è utile, che è an­zi pericoloso andare a Cesarea, parlare con le romane…».
«E chi ti dice che ciò avverrà?», chiede Gesù.
«Chi? Ma tutto! Tu hai bisogno di sincerarti di una cosa. Tu sei sulle peste di una…», si ferma comprendendo che l’ira lo fa troppo parlare. 5Poi riprende: «Ed io ti dico che Tu dovresti pensare anche ai nostri interessi. Tu ci hai levato tutto. Casa, guadagni, affetti, tranquillità. Siamo dei perseguitati in causa tua e lo saremo anche dopo. Perché Tu, lo dici in tutti i modi, un bel momento te ne andrai. Ma noi restiamo. Ma noi restere­mo rovinati, ma noi…».
«Tu non sarai perseguitato dopo che Io non sarò fra voi. Te lo dico Io, che sono la Verità. E ti dico che Io ho preso ciò che spontaneamente, insistentemente mi avete dato. Dunque non mi puoi accusare di avervi levato con prepotenza uno solo dei capelli che vi cadono quando li ravviate. Perché mi accusi?». Gesù è già meno severo, è adesso di una mestizia che vuol ri­condurre con dolcezza alla ragione, e credo che questa sua mi­sericordia, così piena, così divina, sia freno agli altri che non l’avrebbero, no, per il colpevole.
Anche Giuda sente questo e, con uno di quei bruschi tra­passi della sua anima presa da due forze contrarie, si getta a terra colpendosi al capo, al petto e urlando: «Perché sono un demonio. Un demonio io sono. Salvami, Maestro, come salvi tanti indemoniati. Salvami! Salvami!».
«Non sia inerte la tua volontà di esser salvato».
«C’è. Lo vedi. Io voglio essere salvato».
«Da Me. Pretendi che Io faccia tutto. Ma Io sono Dio e ri­spetto il tuo libero arbitrio. Ti darò le forze per giungere a “vo­lere”. Ma volere non essere schiavo deve venire da te».
«Lo voglio! Lo voglio! Ma non andare a Cesarea! Non andare! 6Ascolta me come hai ascoltato Giovanni quando volevi andare ad Acor. Abbiamo tutti gli stessi diritti. Ti serviamo tutti ugualmente. Tu hai l’obbligo di accontentarci per quello che facciamo… Trattami come Giovanni! Lo voglio! Che c’è di di­verso fra me e lui?».
«L’animo c’è! Mio fratello non avrebbe mai parlato come tu parli. Mio fratello non…».
«Silenzio, Giacomo. Parlo Io. E a tutti. E tu alzati e procedi da uomo, quale Io ti tratto, non da schiavo gemente ai piedi del padrone. Sii uomo,  posto che tanto ci tieni ad essere tratta­to come Giovanni, il quale, in verità, è da più di un uomo, per­ché è casto ed è saturo di Carità. Andiamo. È tardi. E all’alba voglio passare il fiume. A quell’ora rientrano i pescatori che hanno ritirato le nasse ed è facile trovare un traghetto. La luna nei suoi ultimi giorni alza sempre più il suo arco sottile. Pos­siamo, alla sua aumentata luce, andare più spediti.
7Udite. In verità vi dico che nessuno deve vantarsi di fare il proprio dovere ed esigere per questo, che è un obbligo, speciali favori.
Giuda ha ricordato che tutto mi avete dato. E mi ha detto che per questo Io ho il dovere di accontentarvi per quello che fate. Ma sentite un po’. Fra voi sono dei pescatori, dei possi­denti di terra, più d’uno che ha un’officina, e lo Zelote che ave­va un servo. Orbene. Quando i garzoni della barca, o gli uomi­ni che come servi vi aiutavano nell’uliveto, vigneto, o fra i campi, o gli apprendisti dell’officina, o semplicemente il servo fedele che curava la casa e la mensa, finivano i loro lavori, voi vi mettevate forse a servirli? E così non è in tutte le case e le incombenze? Chi degli uomini, avendo un servo ad arare o a pascere, o un operaio nell’officina, gli dice quando finisce il la­voro: “Va’ subito a tavola”? Nessuno. Ma, sia che torni dai campi, come che abbia deposto gli arnesi del lavoro, ogni pa­drone dice: “Fammi da mangiare, ripulisciti e con veste pulita e cinta servimi mentre io mangio e bevo. Dopo mangerai e ber­rai tu”. Né si può dire che ciò sia durezza di cuore. Perché il servo deve servire il padrone, né il padrone gli resta obbligato perché il servo ha fatto ciò che al mattino il padrone aveva or­dinato. Perché, se è vero che il padrone ha il dovere di essere umano col proprio servo, così il servo ha il dovere di non essere infingardo e dilapidatore, ma di cooperare al benessere del pa­drone che lo veste e lo sfama. Sopportereste voi che i vostri garzoni di barca, i contadini, gli operai, il servo di casa, vi di­cessero: “Servimi perché io ho lavorato”? Non credo.
Così anche voi, guardando ciò che avete fatto e che fate per Me – e, in futuro, guardando ciò che farete per continuare la mia opera e continuare a servire il Maestro vostro – dovete sempre dire, perché vedrete anche che avete sempre fatto mol­to meno di quanto era giusto fare per essere a pari col molto avuto da Dio: “Siamo servi inutili, perché non abbiamo fatto che il nostro dovere”. Se così ragionerete, vedrete che non sen­tirete più pretese e malumori sorgere in voi, e agirete con giu­stizia».
 Gesù tace. Tutti riflettono.
8Pietro urta col gomito Giovanni, che riflette tenendo gli oc­chi celesti fissi sulle acque che dal color indaco passano ad un argento azzurro per la luna che le tocca, e gli dice: «Chiedigli quando è che uno fa più che il suo dovere. Vorrei giungere a fare di più del mio dovere, io…».
«Io pure, Simone. Pensavo proprio a questo», gli risponde Giovanni col suo bel sorriso sulle labbra, e chiede forte: «Mae­stro, dimmi: l’uomo tuo servo non potrà mai fare più del suo dovere, per dirti con questo “più” che ti ama completamen­te?».
«Fanciullo, Dio ti ha dato tanto che, per giustizia, ogni tuo eroismo sarebbe sempre poco. Ma il Signore è così buono che misura ciò che gli date non con la sua misura infinita. Lo mi­sura con la misura limitata della capacità umana. E quando vede che avete dato senza parsimonia, con una misura colma, traboccante, generosa, allora dice: “Questo mio servo mi ha dato più di quanto era suo dovere. Perciò Io gli darò la superabbondanza dei miei premi”».
«Oh! come sono contento! Io allora ti darò misura strari­pante per avere questa sovrabbondanza!», esclama Pietro.
«Sì. Tu me la darai. Voi me la darete. Tutti quelli che sono amanti della Verità, della Luce, me la daranno. E con Me sa­ranno soprannaturalmente felici».
  
La pace sia con voi.
Giovanna

 

XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)ultima modifica: 2013-10-05T07:58:16+02:00da dio_amore
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