CARISSIMI,
VI TRASCRIVO OGGI SOLO UNA PARTE (E POI IL TUTTO LO TROVERETE NEL RIQUADRO APPOSITO) DELLA TERRIBILE AGONIA SPIRITUALE DI GESU’ NEL GETSEMANI :
MARIA VALTORTA, L’EVANGELO COME MI E’ STATO RIVELATO, CAP. 602, ed. CEV
L’AGONIA NEL GETSEMANI E LA CATTURA DI GESU’
[…] «Fermatevi, attendetemi qui, mentre Io prego. Ma non dormite. Potrei avere bisogno di voi. E, ve lo chiedo per carità, pregate! Il vostro Maestro è molto accasciato».
É infatti di un accasciamento già profondo. Pare già aggravato da un peso. Dove è più il virile Gesù che parlava alle folle, bello, forte, dall’occhio dominatore, il pacato sorriso, la voce sonora e bellissima? Pare già preso da un affanno. É come uno che ha corso o che ha pianto. Ha una voce stanca e affannata. Triste, triste, triste… Pietro risponde per tutti:
«Sta’ tranquillo, Maestro. Vigileremo e pregheremo. Non hai che chiamarci, che verremo».
E Gesù li lascia, mentre i tre si curvano a radunare foglie e sterpi per fare un fuocherello che serva a tenerli desti e anche a combattere la guazza che comincia a scendere abbondante. Cammina, volgendo loro le spalle, da occidente a oriente, avendo perciò in faccia la luce lunare. Vedo che un grande dolore fa ancor più dilatato l’occhio, forse è un bistro di stanchezza che lo allarga, forse è l’ombra dell’arco sopraccigliare. Non so. So che ha l’occhio più aperto e incavato. Sale a testa china, solo ogni tanto la alza con un sospiro, come facesse fatica e anelasse, e allora gira il suo occhio tanto triste sul placido uliveto. Fa qualche metro in salita, poi gira intorno ad uno scaglione, che rimane così fra Lui e i tre lasciati più in basso. Lo scaglione, alto pochi decimetri all’inizio, sale sempre più e dopo poco è alto più di due metri, di modo che ripara completamente Gesù da ogni sguardo più o meno discreto e amico.
Gesù prosegue sino ad un grosso masso che ad un certo punto sbarra il sentieruolo, forse messo a sostegno alla costa che in giù scoscende più ripida e nuda sino ad una desolata macia, che precede le mura oltre le quali è Gerusalemme, e in su continua a salire con altri balzi e altri ulivi. Proprio sopra al grosso sasso si spenzola un ulivo tutto nodoso e contorto. Pare un bizzarro punto interrogativo messo dalla natura a chiedere qualche perché.
I rami folti sulla cima danno risposta alla domanda del tronco, dicendo ora di si col piegarsi verso terra, ora di no dimenandosi da destra a manca, sotto un vento lieve che passa a ondate fra le fronde e che a volte sa soltanto di terra, a volte di quell’odore amarognolo dell’ulivo, alle volte di un misto profumo di rose e mughetti che non si sa da dove possa venire.
Oltre il sentieruolo, in basso, sono altri ulivi, ed uno, proprio sotto al masso, fenduto da qualche fulmine eppure sopravvissuto, o scosciato per non so che causa, ha del tronco iniziale fatto due tronchi che salgono come le due aste di un grande V in stampatello, e le due chiome si affacciano al di qua e al di là del masso, come volessero vedere e velare nello stesso tempo, o farsi ad esso masso una base di un grigio argento tutto pace.
Gesù si ferma lì. Non guarda la città che appare là in basso, tutta bianca nella luce lunare. Anzi le volge le spalle e prega a braccia aperte a croce, col volto alzato verso il cielo. E non vedo il volto suo perché è nell’ombra, avendo la luna quasi a perpendicolo sul capo, è vero, ma anche la folta ramaglia dell’ulivo fra Lui e la luna, che appena filtra fra foglia e foglia con occhiellini ed aghi di luce in perpetuo movimento. Una lunga, ardente preghiera.
Ogni tanto ha un sospiro e qualche parola più netta. Non è un salmo, non è il Pater. E una preghiera fatta dallo sgorgare del suo amore e del suo bisogno. Un vero discorso fatto al Padre suo. Lo comprendo per le poche parole che afferro:
«Tu lo sai… Sono il tuo Figlio… Tutto, ma aiutami… L’ora è venuta… Io non sono più della Terra. Cessa ogni bisogno di aiuto al tuo Verbo… Fa’ che l’Uomo ti soddisfi come Redentore come ti fu ubbidiente la Parola… Ciò che Tu vuoi… Per loro ti chiedo pietà… Li farò salvi? Questo ti chiedo. Voglio così: dal mondo salvi, dalla carne, dal demonio… Posso chiedere ancora? É giusta domanda, Padre mio. Non per Me. Per l’uomo, che è tua creazione e che volle rendere fango anche la sua anima. Io getto nel mio dolore e nel mio Sangue questo fango, perché torni l’incorruttibile essenza dello spirito a Te gradito… Ed è dovunque. Egli è il re questa sera. Nella reggia e nelle case. Fra le milizie e nel Tempio… La città ne è colma, e domani sarà un inferno…».
Gesù si volge, si appoggia con la schiena al masso e incrocia le braccia. Guarda Gerusalemme. Il viso di Gesù si fa sempre più mesto. Mormora:
«Pare di neve… ed è tutta un peccato. Anche in essa quanti ho guarito! Quanto ho parlato!… Dove sono quelli che mi parevano fedeli?»…
Gesù curva il capo e guarda fisso il terreno coperto di una erbetta corta e lucida di guazza. Ma, per quanto abbia il capo chino, comprendo che piange, perché delle gocce lucono nel cadere dal volto al suolo.
Poi alza il capo, disserra le braccia, le congiunge tenendole al disopra del capo e agitandole così unite. Poi si incammina. Torna verso i tre apostoli seduti intorno al loro fuocherello di sterpi. E li trova mezzo addormentati.
Pietro si è addossato ad un tronco con le spalle e, con le braccia conserte sul petto, ciondola con la testa nelle prime caligini di un robusto sonno.
Giacomo è seduto, con il fratello, su un radicone che affiora e sul quale hanno messo i mantelli per sentirne meno le gobbe, ma, nonostante siano scomodi più di Pietro, sono anche loro sonnecchianti. Giacomo ha abbandonato la testa sulla spalla di Giovanni e questo ha piegato la sua su quella del fratello, come se il dormiveglia li avesse immobilizzati in quella posa.
«Dormite? Non avete saputo vegliare un’ora sola? Ed Io ho tanto bisogno del vostro conforto e delle vostre preghiere!».
I tre sobbalzano confusi. Si sfregano gli occhi. Mormorano una scusa, accusando lo sforzo del digerire come causa prima di questo loro sonnecchiare:
«É il vino… il cibo… Ma ora passa. Un momento è stato. Non avevamo voglia di parlare e questo ci ha portati al sonno. Ma ora pregheremo a voce alta e non succederà più».
«Sì. Pregate e vigilate. Anche per voi ne avete bisogno».
«Sì, Maestro. Ti ubbidiremo».
Gesù torna via. La luna che gli batte in volto, così forte nel suo chiarore d’argento che rende sempre più pallida la veste rossa come la velasse di una polvere bianco lucente, mi fa vedere il suo volto sconfortato, addolorato, invecchiato.
Lo sguardo è sempre dilatato, ma pare appannato. La bocca ha una piega di stanchezza. Torna al suo masso ancor più lento e curvo. Si inginocchia appoggiando le braccia al masso, che non è liscio ma a mezza altezza ha come un seno, quasi fosse stato lavorato apposta così, e su questo breve seno è nata una pianticina, che mi pare di quei fioretti simili a piccoli gigli che ho visto anche in Italia, dalle fogliette piccole, tonde ma dentellate agli orli e polpute e i fiorellini minuti sugli esilissimi steli. Sembrano piccoli fiocchi nevosi spruzzanti il grigio del masso e le fogliette verde scuro. Gesù appoggia le mani lì presso e i fiorellini gli vellicano la guancia, perché Egli appoggia il capo sulle mani giunte e prega. Dopo un poco sente il fresco delle piccole corolle, alza il capo. Le guarda. Le carezza. Parla loro:
«Voi siete pure!… Voi mi date ristoro! C’erano anche nella grotticella della Mamma questi fiorellini… e Lei li amava perché diceva: “Quando ero piccina, diceva mio padre: ‘Tu sei un giglio così piccino e tutto pieno di rugiada celeste”‘… La Mamma ! Oh! Mamma mia!».
Ha uno scoppio di pianto. Col capo sulle mani congiunte, ricaduto un poco sui calcagni, lo vedo e l’odo piangere, mentre le mani stringono le dita e le tormentano l’una all’altra. Sento che dice:
«Anche a Betlemme… e te li ho portati, Mamma. Ma questi, chi te li porterà più?…».
Poi riprende a pregare e a meditare. Deve essere ben triste la sua meditazione, angosciosa più che triste, perché per sfuggirla Egli si alza, va avanti e indietro mormorando parole che non afferro, alzando il volto, abbassandolo, gestendo, passandosi sugli occhi, sulle gote, sui capelli, le mani con mosse macchinali e agitate, proprie di chi è in grande angoscia.
Dirlo non è niente. Descriverlo è impossibile. Vederlo è andare nella sua angoscia.
Gestisce verso Gerusalemme. Poi torna ad alzare le braccia verso il cielo come per invocare aiuto. Si leva il mantello come avesse caldo. Lo guarda… Ma che vede? I suoi occhi non guardano altro che la sua tortura, e tutto serve a questa tortura, ad aumentarla. Anche il mantello tessuto dalla Madre. Lo bacia e dice:
«Perdono, Mamma! Perdono!».
Pare lo chieda alla stoffa filata e tessuta dall’amore di mamma… Se lo rimette. É in uno strazio. Vuole pregare per superarlo. Ma con la preghiera tornano i ricordi, le apprensioni, i dubbi, i rimpianti… E una valanga di nomi… città… persone… fatti… Non posso seguirlo perché è veloce e saltuario. È la sua vita evangelica che gli sfila davanti… e gli riporta Giuda traditore. É tanto l’affanno che urla, per vincerlo, il nome di Pietro e Giovanni.
E dice: «Ora verranno. Sono ben fedeli loro!».
Ma “loro” non vengono. Chiama di nuovo. Pare terrorizzato come vedesse chissà che. Fugge veloce verso il luogo dove è Pietro e i due fratelli. E li trova più comodamente e pesantemente addormentati intorno a poche bragie che, ormai morenti, hanno solo dei zig e zag di rosso fra il grigio della cenere.
«Pietro! Vi ho chiamati tre volte! Ma che fate? Dormite ancora? Ma non sentite quanto soffro? Pregate. Che la carne non vinca, non vi vinca. In nessuno. Se lo spirito è pronto, la carne è debole. Aiutatemi…».
I tre sono più lenti a svegliarsi. Ma infine lo fanno e, con occhi imbambolati, si scusano. Si alzano, prima mettendosi seduti, poi mettendosi proprio ritti.
«Ma guarda!», mormora Pietro. «Non ci è mai accaduto! Deve essere proprio stato quel vino. Era forte. E anche questo fresco. Ci si è coperti per non sentirlo (infatti si erano coperti coi mantelli anche sul capo) e non si è più visto il fuoco, non si è avuto più freddo, ed ecco che il sonno è venuto. Dici che hai chiamato? Eppure non mi pareva di dormire tanto forte… Su, Giovanni, cerchiamo dei rametti, muoviamoci. Ci passerà. Sta’ sicuro, Maestro, che ora poi!… Resteremo in piedi…», e getta una manata di fogliette secche sulle bragie, e soffia finché la fiamma risuscita, e la alimenta con i rami di rovo portati da Giovanni, mentre Giacomo porta un grosso ramo di ginepro, o simile pianta, che ha tagliato da un macchione poco discosto, e lo unisce al resto.
La fiamma si alza alta e gioconda illuminando il povero viso di Gesù. Un viso veramente di una tristezza che non si può guardare senza piangere. Ogni fulgore di quel volto è annullato in una stanchezza mortale. Dice:
«Sono in un’angoscia che mi uccide! Oh! sì! L’anima mia è triste sino a morirne. Amici!… Amici! Amici!».
Ma, se anche così non dicesse, il suo aspetto direbbe che Egli è proprio come uno che muore, e nel più angoscioso e desolato abbandono. Pare che ogni parola sia un singhiozzo… Ma i tre sono troppo carichi di sonno. Sembrano quasi ebbri tanto vanno traballando ad occhi semichiusi… Gesù li guarda… Non li mortifica con rimproveri. Scuote il capo, sospira e torna via. Al posto di prima. Prega di nuovo in piedi, con le braccia in croce. Poi in ginocchio come prima, col volto curvo sui piccoli fiori. Pensa. Tace… Poi si dà a gemere e singhiozzare forte, quasi prostrato tanto è rilassato sui calcagni. Chiama il Padre. Sempre più affannosamente…
«Oh!», dice. «É troppo amaro questo calice! Non posso! Non posso! É al di sopra di quanto Io posso. Tutto ho potuto! Ma non questo… Allontanalo, Padre, dal tuo Figlio! Pietà di Me!… Che ho fatto per meritarlo?».
Giovedì Santoultima modifica: 2011-04-21T05:56:47+02:00da
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